L’inquietante familiarità della vita delle cose
Fotografare è trattenere il respiro quando tutte
le nostre facoltà di percezione convergono
davanti alla realtà che fugge.
Henri Cartier Bresson
L’inquadratura è quasi sempre stretta, lo spazio limitato, il campo visivo si restringe su una fetta isolata di “realtà”. Si contrae e bascula, quasi fosse un microscopio. Un microscopio anomalo che anziché ingrandire le cellule o i globuli del sangue, si avvicina alla trama delle cose, alla paglia di una sedia, alla schiuma di un caffè o alle pieghe di uno straccio. Visioni di materia fissate in un istante, fotogrammi estratti dal flusso di realtà che ne isolano un momento della percezione. È il tempo di posa breve della fotografia digitale, l’istante dell’otturatore che coglie la realtà saltata all’occhio del fotografo, ma è anche la vita lenta e silenziosa delle cose. La sedia di paglia è sempre stata lì e si è impolverata, macchiata e sfilacciata negli anni, ma è solo nell’istante in cui l’occhio ne percepisce la simmetria fra il disegno dell’intreccio e i rombi del pavimento che viene fissata dalla luce e dell’obiettivo. Foglia, superficie legnosa e porta candele son durati anni o stagioni, ma si danno a vedere in quell’unico passaggio della luce in trasparenza. È quella stessa faglia temporale che ritaglia il passaggio fortuito di uno scarabeo sulla tovaglia della festa.
C’è qui quella lezione tutta particolare dell’attesa, dell’attesa dell’istante decisivo, quel “trattenere il respiro” per far sì che una porzione di mondo ci sorprenda e si fissi sul supporto sensibile (sia esso analogico o digitale). La macchina fotografica di Sveva Bellucci non mette in scena, piuttosto aspetta che siano gli oggetti a rivelarsi con simmetrie, grana o prospettive inedite ed è così che il suo obbiettivo ci permette di percepire quel che non ci si aspetta di vedere. Che un raggio di luce metta in asse una scritta e una sigaretta o che le forme regolari di una serranda s’imprimano su un piatto. È proprio la comprensione profonda dell’oggetto e della posizione che ne regola lo stare al mondo che fanno lo stile di queste fotografie. Per questo le inquadrature sono millimetriche, senza ritagli, senza ritocchi: perché scelgono quel che rimane fuori come limite, confine e definizione di quel che è preso nello scatto. Sono scatti che richiedono uno sforzo, un’osservazione lunga: si è disorientati, ci si inclina, ci si allontana, si scruta meglio, ci si avvicina e finalmente si scopre. E la scoperta – e la sorpresa – avviene proprio grazie a quel che è rimasto fuori, a quella “mancanza”, a quella lacuna del reale che è l’inquadratura (come era la cornice per la pittura). Si produce una forma di conoscenza sorprendente. Si riconoscono le pareti interne di un vaso concavo laddove si pensava di vedere un bordo smaltato, il marciume di una mela sotto le colorazioni acide e le forme quasi astratte, una clessidra dietro un soffio di vetro sopra un tavolo.
Queste fotografie In_pianta, guardano la realtà da un preciso punto di vista, dall’alto e con un’angolazione perfettamente parallela all’obiettivo ed è in questa costrizione che le forme si rivelano. Sono macro-topografie che eliminano quasi totalmente i piani di profondità del reale e ne restituiscono l’ossatura e l’essenza. Mappe inedite dell’esistenza che modificano la nostra percezione abituale rivelando i tracciati geometrici del mondo, l’ampio spettro delle sue tonalità, la presenza – attraverso i suoi dettagli – della carne delle cose. Mappe che non solo disegnano il rapporto armonico di due pomodorini a metà fra una striscia segnaletica e un selciato, ma indicano allo sguardo i minuscoli dettagli di un ago di pino e una pagliuzza. Mappe cognitive che – come ogni forma d’arte – modificano uno stare al mondo e un orientamento dello sguardo perché non passerò più accanto al Tevere senza percepire le increspature quasi plastiche dell’acqua, o a una pozzanghera senza ricordarmi di come ombra e luce modifichino la sostanza stessa delle cose, di quanto il fango possa essere denso e trattenere in superficie foglie e moscerini, di come l’ombra di un ramo e di un ombrello possano ridisegnare il fondale sottostante, e di sorprendermi che visto dall’alto il pomello di una poltrona possa vedersi proprio così, o che la mano del fotografo possa disegnarsi, come una radiografia, nel fondo verde dell’acqua melmosa..
È come se il medium fotografico ci mettesse davanti agli occhi quella presenza latente delle cose, invisibile alla visione normale, una presenza netta e chiara che si materializza sulla carta come fosse una decalcomania del reale. Una presenza quasi “inquietante”, come avrebbe detto Freud, perché trasforma “quanto ci è noto da lungo tempo” in qualcosa di sconosciuto, in una forma quasi allucinatoria di realtà. Qui la fotografia è proprio quell’ “immagine folle velata di reale”, come la definiva Roland Barthes, non una rappresentazione della realtà, ma un’immagine dal “realismo assoluto”, “falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo”. Perché in un giorno, un’ora e in un millesimo di secondo l’obiettivo, la luce e l’occhio del fotografo si trovavano a passare di lì e cogliere quel che solitamente non si vede.
Maddalena Parise
- Vedi la mostra: In_pianta