Palazzo Chigi/Ariccia
Siamo abituati a percorrere i corridoi dei musei da una stanza all’altra guidati dalle indicazioni delle luci che indirizzano lo sguardo; quadro dopo quadro, lungo percorsi spesso prestabiliti, sostiamo davanti a ciò che ci viene messo di fronte agli occhi. Qui il museo come “spazio obbligato” scompare e, fotografato alla luce del giorno, Palazzo Chigi si rivela nella sua natura di dimora-museo, nella tradizione delle residenze principesche e cardinalizie, spazi privati e di rappresentanza a un tempo che solo il gusto moderno ha voluto isolare dal contesto trasformandoli in luoghi di esposizione che imbalsamano il passato. Introducendosi nelle sale del palazzo ancora non aperto al pubblico l’obiettivo di Sveva Bellucci ne rivela la natura di spazio ibrido, di istituzione “singolare” dove convivono mestoli e bassorilievi dei tempi di Adriano, dove gli arabeschi dorati del Bernini sono al servizio di una carta da parati, dove i cicli pittorici e i busti scolpiti perdono il prestigio di opere esposte e si confondono con gli arredi quotidiani.
Lavorando con un teleobiettivo e al tempo stesso aprendo molto il diaframma, la macchina fotografica prolunga la visione dell’occhio e ne accentua la capacità selettiva concentrando il fuoco su dettagli inattesi: la cucitura sfilacciata del cuoio intagliato, la perfezione illusoria di un riflesso dipinto incorniciato in uno specchio, l’angolo di un baldacchino e le sue frange.
L’obiettivo sembra essersi messo un paio di occhiali per guardare il mondo, ritagliarlo e stringersi su di esso, registrandone dettagli che, anziché circoscrivere e frammentare lo spazio, sembrano allargarlo paradossalmente. Questi fanno entrare la luce dove solitamente non si percepisce, rendono sensibile il silenzio – quella strana assenza di rumori che isola un museo dallo spazio che lo circonda –, e fanno sentire gli odori della cucina d’altri tempi. La separatezza del museo dal mondo esterno sembra essere stata infranta da questo speciale obiettivo, dalla sua capacità di intrufolarsi nelle stanze private, ma anche dalla sua capacità di coglierne le brecce che lo aprono sul “fuori”. I dettagli del palazzo sono allora montati insieme a “vedute” degli spazi esterni componendo dittici che lo restituiscono al suo territorio. Il “fuori” penetra nelle sale del museo attraverso il riflesso di una finestra sul vetro protettivo di una stampa o si dà a vedere nella parentela di un prospettiva di quadri con un colonnato, mentre similitudini inattese rivelano le derivazioni e la natura spesso nascosta delle cose: l’elaborata carta da parati in cuoio istoriato più famosa d’Europa perde un po’ della sua preziosità e rivela la pelle animale con la quale condivide il colore e la materia, un grembiule stirato di fresco sembra accentuare le pieghe disordinate di un busto marmoreo, il merletto di un lenzuolo richiama la precisione dell’intaglio della decorazione di un soffitto.
Questi dittici sono una specie di mappa porosa e permeabile che restituisce alle opere d’arte la loro geografia e il loro tempo: il gesto dello scalpello sulle pieghe del marmo, la precisione botanica delle foglie dipinte con la loro origine naturale, la tinta scrostata di un muro esterno ai colori del rivestimento barocco e carico dei parati. La nebbia avvolge lo sguardo del busto di Alessandro VII della stessa luce livida del paesaggio e il gesto di un restauratore rivela il lavoro artigiano della consolle intagliata del Bernini.
Maddalena Parise
- Vedi la mostra: Sguardi particolari